Liya

Nessuno dovrebbe vivere una vita così

Sono nata in Somalia, non ho mai saputo cosa volesse dire crescere in un posto sicuro: i disordini, le sommosse, le violenze dei gruppi militari rendono la vita più fragile qui, come se dovesse rompersi da un momento all’altro. È quello che è successo ad Hassan, dopo un anno dal nostro matrimonio: avevamo una piccola tavola calda, eravamo felici, fino a quel giorno in cui venne ucciso sotto i miei occhi. Tutto è andato in pezzi: non sapevo da dove ricominciare, è così che è iniziato il mio viaggio cercando un altro futuro.

Per mesi ho percorso il deserto a piedi, un’enorme distesa senza alberi, senza punti di riferimento, dove tutto sembra sempre uguale: un inferno che resta lo stesso per chilometri. Ci davano da bere una sola volta al giorno, ci picchiavano, dicevano che eravamo lenti, che ci avrebbero lasciati ai ladri e ai banditi. Gran parte di noi sono morti in quel cammino senza poter avere nemmeno una sepoltura, non c’era tempo, non c’era più nulla che contasse se non andare via da lì il prima possibile.

Quando siamo arrivati in Libia mi hanno detto che avrei dovuto pagare per continuare il viaggio, ma io non avevo soldi con me, nessuno poteva aiutarmi, la mia famiglia era povera, avrebbe dovuto vendere la casa. Così hanno iniziato a picchiarmi, mi mettevano la testa in un secchio d’acqua e mi colpivano alle gambe con un bastone. Tutti siamo stati torturati: dormivamo per terra e tutte le notti entravano puntando la torcia per scegliere una vittima. C’erano ragazze che venivano prese e stuprate fino al mattino. Non potevamo fare nulla, non posso fare nulla.

Mille volte ho rivissuto tutto questo: ad ogni controllo, ad ogni colloquio identificativo, una volta arrivata qui in Italia, era come ritornare lì, come risentire lo stesso dolore.

Molte volte ho desiderato di morire, di scomparire.

Nessuno dovrebbe vivere una vita così.